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 Origine dello scudetto 

PRIMA VENIVANO USATI NASTRI, FASCE, FIOCCHI. MA IL 7 FEBBRAIO 1920 UN PICCOLO SCUDO TRICOLORE FU CUCITO SULLE MAGLIE DEI CALCIATORI DELLA NAZIONALE. IDEATORE DELLO STEMMA L'INEFFABILE VATE. E D'ANNUNZIO INVENTO' LO SCUDETTO.

La storia che si scrive coi piedi ancora una volta è cominciata. L’Italia si è inserita nel capitolo nippo-coreano, il primo di un millennio che vedrà la magica sfera continuare a rimbalzare tra continenti e a globalizzare popolo e tifosi, atleti e sponsor, latitudini e poli. Già, la magica sfera.
Oggi il pallone (Federnova) è leggerissimo, di materiale plastico e supersintetico, policromo e perfettamente sferico. Viaggia a quasi 150 Km/h e traccia una traiettoria che i portieri a mala pena prevedono e qualche volta peggio governano.
All’inizio il pallone era altrimenti pesante: quasi un chilo di cuoio grezzo, una camera d’aria gonfiata attraverso un budellino, settanta centimetri di circonferenza approssimativamente sferica cucita esternamente a mano con stringhe. Il tutto generalmente confezionato a Birmingham, secondo le regole dell’International Board.
La prima volta che un siffatto pallone fece la sua comparsa in Italia era l’autunno del 1887. Lo riportò nel nostro Paese un musicista abruzzese, Francesco Paolo Tosti, che faceva la spola tra Londra, dove si recava per le lezioni e i concerti voluti dalla Corte, e Francavilla al Mare (in provincia di Chieti), dove aveva fatto sodalizio con pittori come Francesco Paolo Michetti, Costantino Barbella e Michele Cascella, e poeti come Gabriele D’Annunzio.
A quest’ultimo, ventiquattrenne di grandi ambizioni e di fresca notorietà, il più maturo amico aveva destinato il dono, peraltro costoso, visto che per acquistarlo ci voleva almeno un quarto del salario medio di un operaio italiano. E il giovane "Vate" non ci mise molto a cercare di addomesticare la “cosa inglese" con palleggi, tiri in corsa e colpi di testa. Finché, a causa di qualche maldestro scatto o di qualche malcalcolato rimbalzo, non si fece male, rompendosi perfino due denti. Del che molto dovettero parlare gli amici del cenacolo michettiano, ma soprattutto molto si dolse lo stesso poeta in una lettera all’amata Barbarella (soprannome letterario di Elvira Natalia Fraternali, maritata Leoni) che si affrettò a confortarlo con parole ed opere.
Certo è che, come si dovesse giocare a football, non doveva essere del tutto chiaro a D’Annunzio che, da perfetto improvvisatore, si inventò movimenti e regole. Era così improvvido, il neofita footballeur, che per colpire il pallone coi lacci scuciti e magari inzaccherato di sabbia marina, non si era premunito, come già facevano nei campi inglesi, di “cap" (berretto) o di un fazzoletto annodato alla fronte.
L’infortunio subìto sulla spiaggia di Francavilla non gli fece perdere però l’interesse per il nuovo gioco se è vero che, curioso come al solito, divorò la lettura dei primi manuali Hoepli sullo sport, e che, come al solito esagerando, scrisse qualche tempo dopo al suo amico genovese Antonio Gianello, che rivendicava il primato ligure nell’introduzione del football in Italia, di voler oscurare “la gloria del dottor Spensley" che - come noto - era il pioniere inglese del gioco del calcio in Italia.
Ironia a parte e autocompiacimento non escluso, Gabriele D’Annunzio si avviò ben presto a rappresentare, nel passaggio di secolo tra l’Ottocento e il Novecento, il prototipo non solo dello sportivo (amante dei cavalli, dei motori, della scherma e del nuoto), ma anche dell’intellettuale che, libero di orpelli e pantofole, vuole e sa sporcarsi le mani (e i piedi) con la pratica sportiva. Con malcelata invidia se ne lamentava un altro grande poeta Giovanni Pascoli, che si chiedeva: «come potrò piacere alla gente senza un po’ di sport?». Alla lamentela, “degna di una donnetta inacidita e pettegola", rispose subito il poeta abruzzese ammonendo il colòlega letterato a tollerare chi «arrischiava il proprio cranio contro le staccionate della campagna romana» al contrario di chi - come Pascoli - aveva «il gusto, egualmente rispettabile, di centellinare il fiasco».
Al fiasco D’Annunzio preferì altre e non meno distruttive divagazioni, ma al pallone rimase sempre legato, convinto della indissolubilità, propria della modernità, tra sentimento nazionale, pratiche sportive e invenzioni culturali.
Non è un caso perciò che lo scudetto, ancora oggi stampato sulle maglie così elastiche dei calciatori italiani, sia stato ideato e realizzato dal Vate. Cosa che avvenne durante l’avventura di Fiume (settembre 1919 - dicembre 1920). Durante la Reggenza fu istituito un Ufficio per l’Educazione fisica e lo sport. E D’Annunzio ispezionò le squadre di ginnasti, di podisti, di ciclisti.
Era il 7 febbraio 1920 quando nacque lo scudetto tricolore. Se fino al giorno prima, nelle competizioni sportive, erano utilizzati nastri, fasce e fiocchi, in quel giorno sulla maglia azzurra (il colore è un omaggio allo stemma savoiardo) venne cucito, all’altezza del cuore, uno scudetto verde-bianco-rosso. Si trattava di un piccolo scudo, conformato sulla foggia sannitica antica, che D’Annunzio aveva elaborato ai tempi del volo su Vienna (agosto 1918) e che in quel giorno contrassegnò la squadra calcistica dei militari nazionalisti contrapposta alla rappresentativa cittadina dei fiumani in maglia neroverde.
Anche questa ultima invenzione contribuì a fargli assegnare nel 1922, grazie ad un referendum popolare, il premio Atleta dell’anno.


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